Violenza ostetrica e il principio di solidarietà in sala in parto

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Prima ancora della logica dello scambio “esiste qualcosa che è dovuto all’uomo perchè è uomo”. 

Per secoli , sulla base del giuramento di Ippocrate, il medico ha esercitato il diritto-dovere di non rivelare nulla al paziente  riguardo le sue condizioni di salute, avendo ampia discrezionalità circa la terapia da somministrare e se somministrarla. Nel  XX secolo questo paradigma ha iniziato a subire delle lesioni . Già nel 1917 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato che ” ogni essere umano adulto e sano di mente ha il diritto di decidere  cosa va fatto sul suo corpo”.  Successivamente a far tramontare  l’era del paternalismo medico (e sanitario)  che eleggeva il professionista  a vero e proprio dominus incontrastato  e legittimato ad ignorare le scelte e inclinazioni del paziente, è stata la Costituzione italiana (con particolare rilevanza degli artt. 2 e 3 ) e la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo (Convenzione di Oviedo). Questo cambiamento è stato  ravvisato anche da un punto di vista semantico. Non a caso infatti, il lemma tradizionale “responsabilità del medico” è stato sostituito dalla più vasta conceptio verborum di “responsabilità medica”, ampliando  cosi’  la tutela del paziente non solo da un punto di vista ontologico ma  anche deontologico, essendo più professionisti responsabili in caso di inadempimento della prestazione sanitaria (non solo il medico ma anche i sanitari e l’equipe nel suo insieme). Un vero e proprio fenomeno di “responsabilizzazione globale, rafforzato ed uniforme” degli operatori sanitari e della struttura ospedaliera.

Ciò nonostante il nostro ordinamento non contempla in maniera diretta la cd “violenza ostetrica” (riferibile non soltanto alle ostetriche  ma anche ad altri operatori sanitari). 

Ma si sa : la società propone e il diritto, oltrepassando la mera legge, progressivamente predispone. Ex facto oritur ius.

Tale fattispecie infatti trova una tutela attraverso la sua riconducibilità in altre forme di abusi.

Una materia inerme e apparentemente inerte che il legislatore  cerca di modellare a immagine e somiglianza delle varie  figure di reato al fine di ricondurla nell”id quod plerumque accidit” e dunque  in un “genus”  tipizzato in maniera diretta e chiara dal codice. E’ cosi che tale materia rozza può “sofisticare” se stessa e integrare il reato di  ” violenza privata” quando determina  una coercizione della libertà della donna; può integrare la violenza sessuale quando il sanitario costringe la donna a compiere o a subire atti sessuali; può integrare l’ipotesi di lesione personale quando l’intervento del sanitario provochi una malattia nel corpo o nella mente della donna; può integrare  anche un illecito civile ogni volta che viene violato un diritto della donna partoriente.

E’ evidente come  l’aggettivo (ostetrica) sia funzionale al significato del sostantivo a cui è inscindibilmente legato, configurando cosi’ l’essenza del sintagma normativo :  una  violenza di genere ossia una pratica  abusante e irrispettosa  su una persona di genere femminile, su una donna in ragione della gravidanza.

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS 2014) e gli orientamenti giurisprudenziali  hanno evidenziato quali sono i trattamenti che le donne subiscono e che possono integrare tali abusi: assenza del consenso informato nella scelta del trattamento; abuso fisico diretto; abuso verbale;  impiego di procedure mediche non consentite e coercitive (in particolare l’episiotomia, l’incisione chirurgica del perineo e della vagina per semplificare il parto), negligenza nell’assistenza del parto. Può realizzare la cd violenza ostetrica anche un “elementare” violazione della privacy.  Testimonianze  che raccontano di donne “ costrette  a infusioni ingiustificate di ormoni per accelerare il travaglio,esposte  a decine di persone che infilano le mani nei loro orifizi, private del loro primo contatto con il figlio”, in virtù di una logica quasi mercantile, che rischia di affogare nell’acqua gelida del calcolo la sensibilità,quale elemento  essenziale al fine di qualificare un  professionista come tale. Storie di abusi, di appropriazioni dei personali processi riproduttivi, storie di donne. Storie che potrebbero determinare o co-determinare  ipotesi di depressione post partum .

Non a caso l’Assemblea  Generale delle Nazioni Unite ha chiesto agli Stati membri che : “Prevengano la strumentalizzazione delle donne nello svolgimento del parto  ed assicurino che vengano irrogate sanzioni per la violenza ostetrica e ginecologica, inclusa l’esecuzione di tagli cesarei abusivi, il rifiuto di dare alle donne sollievo dal dolore  durante il parto o durante l’interruzione chirurgica della gravidanza e la realizzazione di episiotomie non necessarie”

Al di là degli sforzi   legislativi e acrobazie interpretative,necessarie per la predisposizione del più idoneo mezzo di tutela, ciò su cui è giusto porre l’accento è la linfatica sensibilità sottesa alla disciplina giuridica . Infatti, il paziente  viene considerato non più come ” un povero amalgama di linfa e di sangue” ma come persona, e dunque in quanto tale,  inseparabile dal concetto di solidarietà. Avere cura dell’altro(in questo caso dell’altra), fa parte del concetto di persona quale immutabile configurazione di un valore unitario. Persona, donna , madre che durante e dopo tale eterno  e unico frammento di vita  “è raddoppiata , divisa a metà e mai più sarà intera”.

 

Carmen Cieri

Avvocato foro di Avellino

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